Il Cristo alla Colonna di Antonello da Messina  al Louvre

 

Antonello, ultimo atto

 

di Enzo D’Angelo

 

 

 

 

Cristo alla colonna, Museo del Louvre, Parigi

   

     Pietà, partic.,  Museo del Prado, Madrid

 

 

 

  Le Christ à la Colonne d’Antonello de Messine è il titolo della recente mostra (13 maggio - 9 agosto) allestita al Louvre dopo il trasferimento della tavola, nel lu- glio dell’anno scorso, dalla National Gallery di Londra al museo parigino e che ci induce a qualche riflessione sull’ultima produzione di Antonello.

  Da oltre un quarto di secolo e cioè dal 1966, quando un’altra Pietà fu scoperta e aquisita al repertorio antonelliano in occasione del suo passaggio da una col- lezione privata al Museo del Prado, si pone il tema di un ulteriore sviluppo del- l’opera del pittore messinese e del rapporto con i suoi allievi, primo fra tutti il figlio Jacobello.

  Si tratta di stabilire se dopo quel viaggio proficuo fra i centri dell’arte italiana, definito da Chastel un «avvenimento capitale», durante il soggiorno veneziano del 1475-76 o più probabilmente negli ultimi due anni trascorsi a Messina pri- ma della morte (febbraio 1479), mentre realizzava i perenni teoremi - Pala di S. Cassiano, S.Sebastiano di Dresda, Annunciata di Palermo - Antonello abbia rea- lizzato un ciclo sensibile al dato emotivo, caratterizzato da un naturalismo pa- tetico che oltre alla Pietà del Prado comprende due prototipi, il Cristo portacroce di ubicazione attualmente ignota e il Cristo alla Colonna noto in varie versioni. Le sorti di queste opere vagano tra le ombre limbiche dei lavori discussi, in ba- lìa delle interpretazioni estensive e restrittive. Ora se è vero che non si hanno molte notizie sugli ultimi anni del pittore è pur vero che si continua a subire i limiti del biografismo quando anche un tradizionale approccio evoluzionistico o ciclico non potrebbe ignorare la propulsività di Antonello nei vari generi.

 Cristo sofferente è già il soggetto della serie degli Ecce Homo, realizzata appros- simativamente tra il 1470 e il 1474, e pertanto gli accenti patetici non sono una novità degli ultimi anni né una prerogativa di chi ha completato le opere di An- tonello o ha eseguito repliche che presuppongono un originale antonelliano, co- me è il caso del Cristo portacroce e del Cristo alla colonna.

 

 

 

 

Cristo portacroce, (già propr. Paolini) ubicazione sconosciuta

 

 

La versione più accreditata del Cristo portacroce, già di proprietà Paolini nel 1935 e poi dispersa, fu attribuita dal Berenson a Jacobello nel 1957 e, nel 1980, a u- na collaborazione tra padre e figlio da Giovanni Previtali, tenendo presenti le affinità del Cristo, della sua espressione e del paesaggio con quelli della Pietà del Prado. Quest’ultima opera che riprende con maggior pathos ed echi bellinia- ni il tema della precedente Pietà Correr di Venezia, però ripropone anche l’inter- vento di un’altra mano più rigida. Nella diminuita efficacia del paesaggio, che ricorda con minor chiarezza e impegno compositivo quelli di Antonello, nel panneggio inamidato e nel rivolo estraneo di sangue si è visto (Previtali ed al- tri) lo stesso autore della Madonna col bambino dell’Accademia Carrara di Berga- mo, che quasi incide su impianto comunque antonelliano e ci fa pervenire l’u- nico lavoro firmato da Jacobello.

  Unico invece si può ritenere l’autore della piccola tavola (cm.29,5 x 21) del Louvre, omogenea nella composizione e nell’esecuzione, alla quale è stata de- dicata la recente mostra. Conosciuta sopratutto in riproduzione, questa versio- ne del Cristo alla Colonna, già nella collezione Cook di Richmond e poi di Jersey, non ha mancato di suscitare qualche autorevole incertezza sulla sua autografia. Una di queste, forse la più significativa, è quella del Longhi che la considerò u- na «bella copia» che però può aspirare al «rango di originale». I dubbi erano principalmente dovuti a certe presunte novità psicologiche e ad alcune raffina- tezze della tecnica pittorica. Ma se potevano essere risolti dopo la scoperta del- la Pietà del Prado oggi, dopo le analogie col Ritratto d’uomo (1475) di Antonello, anch’esso al Louvre, evidenziate recentemente dai raggi x e infrarossi e da altri accertamenti, sembrano dissolti. Questo essenziale scorcio del Cristo è eviden- temente sovrapponibile, anche per la relazione fisionomica esistente, col Cristo del Prado e con esso stabilisce un reciproco avvaloramento.

 

 

 

 

Pietà, Museo del Prado, Madrid

 

 

 

La torsione del busto della serie degli Ecce Homo qui raggiunge un pieno tre quarti in una inquadratura che taglia l’anatomia sopra lo sviluppo delle masse muscolari, mantenendone però il palpito, e concentra le linee di forza della composizione in un nòcciolo spaziale di estrema sintesi formale ed espressiva. Il confronto con gli Ecce Homo conferma altresì un intero processo di sintesi ti- picamente antonelliano, fondamentale come quello dei ritratti o delle Annuncia- te, che infine apre il capitolo del Cristo alla Colonna. Ed è appunto la prossimi- tà del ciclo anteriore degli Ecce Homo, come del S. Sebastiano di Dresda e della probabilmente contemporanea Pietà del Prado, che ci sembra avallare alcuni ul- teriori sviluppi creativi in un periodo di già intenso e relativamente breve. Il Cristo del Louvre ripropone gli elementi naturalistico-patetici (corona di spine, lacrime, gocce di sangue, cappio) dell’Ecce Homo (1473?) di Piacenza, al quale è vicinissimo, e tiene presente l’intensa fisicità dell’esemplare disperso della col- lezione Ostrowskj (1474), anzi di quest’ultimo sviluppa il chiarore dello sfondo

e il decentramento della colonna. Eppure appartiene ad altra fase alla quale pe-

rò nessun seguace poteva aspirare.

 

                                                            

 

 

Ecce homo, Collegio Alberoni, Piacenza

 

 

 

L’originale inquadratura del dipinto del Louvre, non tagliato come dimostra lo spessore della barba di vernice sul bordo, e il punto di vista ribassato innalzano un accorato appello che risolve il tema dell’immagine di devozione con l’emo- zione più intensa che conosciamo nella pittura di Antonello. La tragica plastica della fisionomia scavata dalla sofferenza, anche per le sue implicazioni spaziali, propone la complessività di una condizione più generale. Nell’espressione pro- strata del volto, in cui vacilla la certezza, alita la precarietà umana spazializzata anche dalla corda che l’avvinghia al suo destino invece che alla colonna, spro- porzionata e decentrata come mai prima, presenza luminosa di fondo dalla ma- terialità ridotta a supporto della tensione verticale. Ma se lo sfondo luminoso ci fa pensare a quale sarebbe potuto essere un nuovo sviluppo per i ritratti d’un Antonello più longevo, visibilmente avvenuto risulta il passaggio dalla funzio- ne ostensiva degli Ecce Homo, frontalmente orientati, a quella lirica che il dina- mico solipsismo del Cristo alla Colonna in torsione impone.

  Chi, se non l’autore dell’inversione simbolica del S.Sebastiano di Dresda - dove la colonna di pietra, ormai rotolato frammento, è sostituita da quello strano al- bero che nasce dal pavimento ed è fissato alla colonna umana - poteva traslare una colonna con tale disinibizione prospettica dalla necessaria proporzione e dalla funzione originaria? E chi, se non l’Antonello dei ritratti, poteva accedere alla disinvoltura del taglio fotografico? E infine, a considerare il segno quasi in- cisorio di Jacobello, non si vede chi, se non l’autore delle celebri velature a o- lio, poteva ottenere quelle finitezze epidermiche che nei riflessi della barba o nella trasparenza delle lacrime hanno un’evidente continuità con la pittura fiamminga e con le altre opere di un solo autore, così meridionale e settentrio- nale ad un tempo, Antonello.

 

 

 

 

 

 

luglio1993